Gli ultimi mesi non sono stati facili per il mondo del rock e del cinema.
Tra Lemmy, David Bowie, Alan Rickman, Glenn Frey, Natalie Cole e Paul Kantner, per qualche settimana sembrava che il mondo avesse una strana ossessione nell’uccidere le stelle.

I fan di questi artisti, da quelli più ardenti a quelli occasionali, si sono riversati sulle bacheche dei social media per condividere memorie e tributi. Da quando questi siti sono entrati nella nostra vita, ogni volta che è morta una persona famosa si sono ripetute simili manifestazioni, con simili meccanismi: tanti ricordano, molti condividono, altri si lamentano per l’ipocrisia di chi ricorda una persona che non ha mai conosciuto davvero.
E pezzi come questo, che si interrogano su come il nostro rapporto con la morte stia cambiando. Per secoli l’idea di celebrità era limitata a papi, re ed imperatori; magari a qualche grande artista o personaggio storico per chi faceva parte delle classi più educate della loro era. Ma oggi la maggior parte di noi viene a conoscenza – conoscenza virtuale – di migliaia di persone nella sua vita tramite film, libri, riviste, podcast, serie TV, videogiochi.

Rickman

Decine, a volte centinaia di queste persone possono avere una grande influenza sulla vita di ognuno di noi. A volte possono essere più importanti di nostri familiari, di amici anche vicini. Sin da quando esiste il cinema, da quando le radio hanno invaso le case, il nostro mondo si è riempito di voci familiari, una costellazione di persone condivise da milioni di persone. Si può decidere di vedere questo fenomeno come la creazione di enormi famiglie unite da interessi, passioni e idoli; famiglie i cui membri non si incontrano mai nel mondo reale.
Grazie ad internet persone molto distanti tra loro possono creare comunità virtuali, diventare amici anche senza mai incontrarsi faccia a faccia, condividere passioni, a volte coinvolgere anche l’oggetto della loro passione, così da sentirsi parte della loro storia, anche solo per un attimo. Senza un minimo di familiarità con queste dinamiche, è difficile capire quanto questo tipo di meccanismo possa creare una vera sensazione di intimità.
È inevitabile che questa realtà trasformi il nostro rapporto con la morte, che cessa di essere relegato sia ai momenti privati, in cui si perde una persona vicina a noi, sia agli eventi “rituali”, come la celebrazione della morte di un re, di una principessa o di una figura religiosa. Adesso invece lo schermo del computer diventa il palcoscenico per un funerale decentralizzato, continuo. Non è difficile capire perché sia irritante per molti: mettere in pubblico i propri sentimenti ha sempre un elemento di egocentrismo, di spettacolarizzazione. Tradurre il proprio dolore è particolarmente complesso. Molti lo fanno con abilità, alcuni lo fanno con parole intrise di puro esibizionismo, altri lo fanno con sincerità goffa. E questo tipo di rituale sarà sempre più comune.

Gli ultimi decenni ci hanno regalato tantissime star, tantissime celebrità provenienti da medium molto diversi tra loro. E negli ultimi due-tre decenni, con l’avvento della TV via cavo prima, e di internet dopo, le star sono diventate sempre di più: grazie ai reality show, ai podcast, alle decine di ottime serie TV che vengono viste da milioni di persone giorno per giorno, alle celebrità del mondo dell’informazione, della politica… I musicisti anche meno celebri possono entrare in contatto con un notevole numero di fan, grazie alla rete.
Siamo una cultura in cui la comunicazione è sempre più legata al consumo di intrattenimento, in cui le comunità virtuali permettono di conoscere sempre più persone distanti da noi, di frequentarle spesso, di farle diventare parte del nostro quotidiano. Con tutte queste persone che entrano a far parte della nostra vita, quante persone vedremo morire nel nostro futuro? Persone con cui, in qualche modo, abbiamo cotruito un legame?Tra quaranta, cinquant’anni, quello che sia. La quantità di nomi celebri non accenna a diminuire: vedremo i protagonisti di Game of Thrones sparire come i loro personaggi nel piccolo schermo, anno dopo anno, decennio dopo decennio, così come le star di Breaking Bad, Lost, Friends, Mad Men, The Walking Dead…

Il nostro rapporto con la morte non potrà essere sempre lo stesso. Difficile che la frequenza di questi eventi li renda meno potenti, ma allo stesso tempo potrebbe ridefinire i rituali, e anche il modo in cui la si vive pubblicamente. Chiunque abbia perso un amico con una presenza online capisce quanto possa essere surreale vedere la sua pagina Facebook diventare un luogo di memorie e ricordi: il sito ha implementato procedure perpermettere alla gente di delegare altri per gestire l’uso della pagina dopo la loro morte.
Ma nonostante questo, la fine dei giorni non è un argomento di cui parliamo con facilità.
Bowie, in questo senso, ancora una volta potrebbe aver dimostrato di essere un pioniere.
L’artista ha sempre considerato la sua vita come un’opera d’arte, cambiando il suo aspetto in continuazione, discutendo molto apertamente come le sue opere fossero un’estensione della sua identità. Consapevole dell’avvicinarsi della fine, ha deciso di tenere segreta la malattia che lo stava portando via, e l’ha usata invece come ispirazione per i suoi ultimi lavori.

Blackstar, il suo ultimo album, è pieno di riflessioni sulla fine. Il video musicale del brano omonimo mostra una tuta d’astronauta che ospita uno scheletro. Non è difficile pensare che si tratti di Major Tom, il primo alter ego di Bowie. Il video ispirato a Lazarus è ancora più esplicito nei suoi riferimenti, in un certo senso è un testamento artistico. Questo percorso non ha reso meno tragica la sua scomparsa, ma ha portato ad un senso di catarsi notevole. Si fa fatica a pensare ad una celebrazione unanime come quella che si è vista nel caso di Bowie, e non è solo per la qualità dei suoi album, delle sue interpretazioni da attore, per la sua fama, ma soprattutto perché è sempre stato sé stesso, nelle sue trasformazioni continue, senza mai chiedere permesso, con enorme coraggio, e questo si è esteso anche ai suoi ultimi momenti. Ma quello di Bowie è un caso speciale anche perché l’artista è stato portato via da una malattia degenerativa, il cui percorso ha accompagnato anni della sua vita.
Spesso, molto spesso, tutto succede d’improvviso, spesso succede in maniera molto tragica, come nel caso di Michael Jackson, o Robin Williams. Ognuno di questi eventi è diverso, ed è difficile da metabolizzare. Ma che il futuro si presenti come una continua galleria di saluti estremi è inaccettabile ed impossibile.

LK

Come in molte cose della vita, forse, la risposta a tutti questi quesiti si trova nel piccolo capolavoro cinematografico del Re Leone. Quando il piccolo Simba chiede a suo padre, Mufasa, se saranno per sempre assieme, la risposta racconta di come il cielo sia pieno di stelle che rappresentano tutti i re del passato.
Da sempre cerchiamo e troviamo modi per dare un senso all’intrinseca mancanza di significato della nostra vita e della fine della stessa; ne troveremo altri anche nel nostro tempo di longevità insperata, dove ci sono scienziati che, come un tempo gli stregoni, stanno cercando di trovare un modo per risolvere il problema della morte, consapevoli che la loro battaglia possa essere persa in partenza.
Ognuno di noi troverà un modo personale per dare un senso alla morte: non solo quello di una fine, ma anche l’idea che si continui a vivere in coloro che ci hanno amato, che hanno condiviso idee e memorie con noi, che ci abbiano conosciuti o meno.



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Emilio Bellu

Scrittore, cineasta, giornalista, fotografo, musicista e organizzatore di cose. In pratica è come Prince, solo leggermente più alto e sardo. Al momento è di base a Praga, Repubblica Ceca, tra le altre cose perché gli piace l'Europa.

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